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Secondo giorno a Venezia - Every day life
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il grandissimo Katsu Shintaro in Zato Ichi Monogatari

Il giorno successivo al mio arrivo a Venezia mi alzo presto (le sette e mezza?) ma vacillo sotto il peso di un mal di testa pazzesco: ho la nausea, fuori è coperto. Il tempo perfetto per mettermi KO. Agonizzo sul letto per qualche ora, cercando di riposarmi. Deve avere contribuito lo scarso sonno + il vino bianco tiepido che abbiamo bevuto ieri al party di Kitano.

Verso mezzogiorno arriva Egidio, il regista che dovrà dirigere 5 è il numero perfetto al cinema. Ho bisogno di carboidrati, troviamo un ristorante sul lungomare. E’ strano come per me il mare di Venezia non rientri nella categoria di “mare per fare il bagno” ma solo in quella tutta “ letteraria” che me lo ha reso caro. In pratica per me è un’ambientazione esistenziale, così lo guardo intrigato, come fosse una scenografia, dato che non ha nulla a vedere con quello della mia amata Sardegna.

Con Egidio parliamo di progetti, idee, c’è una bella intesa, rodata da tanti mesi di lavoro comune alla sceneggiatura del film. Ci avviamo verso il centro pulsante del festival, dove cerchiamo di fare un accredito per lui, impresa che si rivelerà impossibile.

A sera andiamo a vedere due film giapponesi del 1962, Zato Ichi monogatari di Misumi Kenji e Lupi, maiali e uomini di Fukasaku kinji. Il primo è denso e mi sorprende per alcuni dialoghi magistrali. Mi ritrovo, commoso, a pensare che è perfino meglio del remake di Kitano. Ha una grande precisione drammaturgica. Il secondo, con titoli di testa mozzafiato si rivelerà più noioso ma comunque pieno di idee geniali. Egidio nota, e scopriremo che ha ragione, che Tarantino lo ha usato come falsariga per strutturare il suo Reservoir dogs (perfino nell’uso degli animali nel titolo).

Tornato in albergo leggo infatti nel catalogo della Biennale che Misumi e Fukasaku insieme a Seijun sono i registi giapponesi preferiti di Tarantino.

Ricevo l’invito a un pranzo riservato con John Woo. Una cosa emozionante se si pensa che ho analizzato con grande attenzione molte sequenze dei suoi film hongkonghesi, e in passato ne ho tanto parlato con Massimo Mattioli; raffinato osservatore del cinema di genere e non solo.

Regolarmente torno all’albergo per potere chiamare Leila con un poco di tranquillità. Lei è convalescente dopo l’operazione subita, sperava di uscire sabato ma la tengono in ospedale sino a lunedì. Comincia a stare meglio e forse, se Dio vuole, le cose peggiori sono ora alle spalle.

Nel pomeriggio il percorso del festival è popolato da molti appassionati, siamo nel weekend e quindi, ovviamente, la densità del flusso aumenta considerevolmente. Io e Egidio ci parcheggiamo nel giardinetto dell’hotel Quattro Fontane e vediamo passare Tsukamoto. Dopo un paio di ore tranquilli senza essere neppure stati abbeverati ci dirigiamo alla sala cineatografica ove assiteremo alla proiezione di due caposaldi della “storia segreta del cinema asiatico”. Marco Muller ha fortemente voluto la proiezione di quei film che costituiscono le radici del B movie. Sono grandissime cose, dall’aria semplice, spesso splendidamente confezionate che hanno creato la spina dorsale di visionari come Tarantino, Kitano, Woo, Ark e via dicendo.

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Shima Hiroko in Lupi, maiali e uomini

Broooan! Usciti piove a catinelle e, dato che lo stomaco langue, ci avviamo alla ricerca di qualcosa da addentare. Ma purtroppo sembra che a Venezia mezzanotte sia l’ora proibita perché malgrado una ricerca degna di Sherlock Holmes finiremo per mangiare un panino alla mortadella sotto l’acqua. La città del cinema a quell’ora non offre niente di meglio.
Frattanto il Lido vede circolare star di hollywood, relative guardie del corpo, altre guardie del corpo, ministri e politici. Poi registi, giornalisti, agenti, produttori, belle donne, portaborse, funzionari tv e via dicendo. Un fritto misto che dopo un poco stanca. Ma che frattanto stordisce.

Un festival è fatto di questo, chiacchiere, passeggiate, cerimonie, incontri inaspettati, coctail e, in ultimo, film. In effetti pochi riescono a vedere tutto il ben di Dio che un festival del genere offre. E io confido che la “storia segreta del cinema asiatico” con i suoi oltre ottanta film sia presto disponibile in dvd.

Vado a dormire non senza avere esplorato una nuova ala, che pare abbandonata, dell’immenso Hotel des Bains.

Il giorno seguente faccio colazione con un vecchio amico: Renato De Maria. Non ci vediamo da tanto e mi ha chiamato “hei igor” mentre, per andare a vedere il film di Beat Takeshi, passavo dal moletto di fronte all’excelsior. E’ sempre una persona gentile e parlare con lui è un grande piacere. Ci raccontiamo gli ultimi dieci anni della nostra vita mentre mangiamo frutta e beviamo the al bergamotto. Arriva sua moglie, Isabella Ferrari. Già la sera prima avevo notato che dal vivo è, se possibile, più bella che in pellicola. Isabella è in giuria, quindi ci lascia dopo poco, frattanto chiacchieriamo di Parigi.

La terrazza dell’Hotel Des Bains è frequentata da passerotti che svolazzano da un tavolo all’altro e penetrano, indisturbati, anche nel celebre salone delle colazioni filmato da Visconti. Malgrado il tono dell’albergo questa “promisquità” è tollerata, cosa che trovo molto simpatica (anche se il giorno dopo alcuni uccelletti mi divoreranno due muffins approffittando di un mio momento di assenza).

Quando incontro qualcuno con cui mi intendo scocca un contatto elettrico. Non si parla normalmente, si generano immagini, scene che diventano sequenze e poi storie.

In breve io e Renato cominciamo a confabulare. Poi mi presenta Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco che sono delle persone molto carine. Si capisce subito che potrebbero permettersi delle arie (perché sono bravi) cosa che invece evitano con molta naturalezza.

Mentre esco per andare alla stazione Santa Lucia mi imbatto, nella Hall dell’albergo,in John Turturro, lo fisso convinto di riconoscere un amico (questo è l’effetto che mi fa vedere e rivedere i film, penso che gli attori che li interpretano siano dei miei amici). Poi mi rendo conto e proseguo. John è vestito casual con una camicia a quadroni, stile country, ha i jeans, porta i calzini bianchi, malgrado le scarpe nere, e affronta il mondo con quella espressione assatanata che gli abbiamo visto in numerosi film.

Mi piacerebbe passare delle ore a chiacchierare con lui e francamente credo che avremmo delle cose da dirci. Il lavoro artistico è così: crea un debito di riconoscenza e un senso di familiarità, intimità in un certo senso. E’ per questo che le star hanno timore quando le approcci. Perché tu le conosci bene ma questa conoscenza non è reciproca. La posizione privilegiata è la tua, non la loro, infatti tu spettatore hai assistito al prodotto del loro ingegno che è quasi una confessione. Anzi qualcosa che va anche oltre la confessione, dato che lavorare con le storie porta a scoprire qualcosa di sé anche per chi fa.

Questo è il problema dell’essere un artista pubblico. Si cammina nel mondo ammantati di un’aurea speciale, ma ben consapevoli che si tratta di pura illusione. Chi passa la sua vita a svelarsi, sa bene di essere nudo come un verme.