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Terzo giorno a Venezia - Every day life

Alle 13 del 5 settembre mi reco, in compagnia del mio amico Egidio Eronico, nei locali del Casinò di Venezia, che oggi ospitano il quartier generale della mostra. C’è un pranzo in onore di John Woo. Si fanno le presentazioni. Marco Muller parla in cinese come fosse la sua lingua madre. So per esperienza che gli stessi cinesi sono stupefatti perché Marco parla anche i dialetti.
In breve Woo siede di fronte me; di fianco a lui ci sono due giornalisti asiatici, suoi vecchi amici. Woo è persona carismatica, parla anche in inglese e lo fa con quella calma di chi comunque domina la situazione. Mi fa pensare a come doveva essere Sergio Leone, che ho visto in alcune interviste ponderare le parole prima di rispondere. Leone non credo che fosse timido, ma si esprimeva con il piacere, quasi artigianale, di cercare la parola giusta.

Si vede comunque che Woo è una persona che sa ascoltare. Si fanno le presentazioni.

Credo che questo incontro inatteso sia un regalo. Non siamo più di dieci persone.

Woo lo seguo da molti anni, da quando per caso ho visto dei suoi film a JogJakarta che mi stordirono per la forza visionaria. Era come un nuovo mondo che mi si spalancava davanti agli occhi.

Da allora ho fatto carte false per procurarmi delle video cassette, quello che si trovava, originali in mandarino, con o senza sottotitoli inglesi, che questo o quell’amico mi facevano duplicare.

In indonesia andavamo al cinema e le ragazze in divisa che dovevano fare i biglietti chiacchieravanosdraiate per terra. Quando qualcuno arrivava si alzavano e chiedevano meccanicamente quanti biglietti. Poi, nel vedersi davanti due occidentali, sembravano stupite.Strabuzzavano gliocchie, malgrado non parlassero una parola di inglese, cercavano di spegarci che non avremmo capito nulla :”Mandarin, mandarin” insistevano preoccupatissime. E io e Leila ridevamo.

Non ci importava: volevamo vedere. Bastava quello, volevamo scoprire questo nuovo fiume di narrazione ritmica e visionaria che non rispondeva a regole sino ad allora conosciute.

Venivamo dal Giappone e per un momento ho avuto la netta sensazione di comprendere come si potesse vedere il mondo da altre coordinate. Per un momento, dopo mesi di permanenza in Asia, ho creduto di sentire con il cuore asiatico e di vedere con gli occhi a mandorla. Una esperienza improvvisa e indimenticabile.

Con gli anni e anche grazie a Tarantino si è cominciato a parlare dei film made in hong kong, che sono finiti per arrivare perfino doppiati. Ho assistito alla parabola di commercializzazione di questo cinema. Fino a trovarmeli in offerta in dvd nei cestini dei supermercati.

Per questo, gli dico, ho diverse copie di ogni suo film. Che al principio era un oggetto misterioso e man mano andava a chiarirsi (io non parlo cinese e quindi le sceneggiature erano per me qualcosa di oscuro, anche se intuivo le strutture).

Al pranzo sono presenti anche alcune giornaliste di prestigiosi quotidiani nazionali. Hanno un atteggiamento di devozione davanti al maestro honkonghese. Lui sorride, gentile, tranquillo. Io sono molto curioso di chiedergli cose sul suo fare cinema. E parto con alcune domande tecniche. Mi dice che per girare un suo film impiega una media di 12 setimane, il doppio di quanto sento dire in Europa. Il nuovo film lo sta scrivendo da solo, ci ha messo un anno per scriverlo e lo girerà a settembre prossimo, in Cina. Ci sarà anche il suo attore feticcio Chow Youn Fat e sarà un film in costume. Gli racconto di come ho scoperto il suo cinema, in una vacanza in indonesia. Di come sono stato preso alla sprovvista dal suo modo di girare, che ho trovato universale. Di qante volte ho visto e rivisto l’inizio di the “killer”. Woo non mette a disagio, è molto gentile e quando fai una domanda su cosa sta facendo o sul fatto che torna a vivere in Asia dopo l’esperienza americana risponde senza esitazione.

La cultura cinese è molto diversa da quella giapponese che sono abituato a frequentare. La timidezza che in Giappone sembra essere un must in Cina è vissuta secondo coordinate differenti. Così sembra facile comunicare, malgrado lo si faccia in una terza lingua, che è l’inglese appunto.

Il pranzo è un insieme di stramberie stile “nouvelle cuisine”, molto poco tradizionale. Per ogni piatto ci si guarda tra gli invitati alla ricerca di un senso. “E questo cos’è?” “Pistacchio forse”. Sono piselli a purea, presentati su un cucchiaino con qualcosa di croccante sopra, tutto molto raffinato ma così poco italiano. Immagino che Woo e la sua famiglia pensino che quello sia il cibo che noi mangiamo tutti i giorni in casa nostra.

Ricordo che parlai molto di Woo con Daniele Luttazzi, lui è sempre molto curioso, una persona che fa della sua apertura mentale una disciplina; una ginnastica bella e buona che lo forma, giorno dopo giorno. Io stesso provvidi a duplicare due film per lui quando ancora erano introvabili in italia. Erano per noi, amici da tempo, materiale di riflessione. Sul cosa si poteva fare sul genere, su cosa era la cultura asiatica in fatto di cinema. Lo ricordo, le frontiere si sono aperte da poco e la cultura asiatica ha ripreso a essere cosnociuta da pochissimo. Per decenni abbiamo ignorato cosa accadeva, cosa si raccontava, come si filmava. A parte Kurosawa e pochissimi altri nomi in Europa non si sapeva molto.

Quando apparve “Storia di fantasmi cinesi” io stesso presi quel film (che poi ho imparato ad amare) come una cosa marziana. Ero vittima, come molti, della troppa astinenza. Frequentando una cosa la si impara ad apprezzare nelle sfumature.

Concludo questo diario veneziano con un’apparizione. Mi trovo nei corridoi dell’Excelsior e sto telefonando a Leila per sapere come sta. Il corridoio è molto ampio, una ragazza mi dice in inglese, “Excuse me”, come se non riuscisse a passare, io la guardo stupito e un poco seccato, il corridoio è talmente largo che ci si passa in venti. Poi all’improvviso, appare attorniata da tre guardie del corpo e da fotografi saltellanti che scattano a ripetizione con il Flash WUMP WUMP WUMP lei, che sembra una madonna nera. Appare Monica Bellucci, altissima (deve avere dei tacchi da 20 cm minimo perché io sembro un nano a confronto). E’ vestita di nero, con lacci e laccetti che la sagomano come un disegno.

Bella. Assente.

Ha l’effetto dell’apparizione del Rex in Amarcord di Fellini: fugace e misteriosa. La vedo ancheggiare e scomparire. Va alla prima di Fratelli Grimm, ultimo viaggio visionario di Therry Gilliam.

Due giorni più tardi ripenserò a questa apparizione quando, di ritorno a parigi, all’eroporto di Venezia sentirò le critiche rivolte a lei da due hostess. Dicevano tra di loro con tono malizioso: “non le bastava la business, ha preteso l’aereo privato”. “Monica Belluuucciiii”, pronunciato come pronuncia “la vuoi una mela” la strega cattiva in Biancaneve

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cinque minuti dopo che l'ho incontrata